Il birraio di Preston
tratto dal romanzo di Andrea Camilleri
pubblicato da Sellerio editore
riduzione teatrale di Andrea Camilleri – Giuseppe Dipasquale
regia di Giuseppe Dipasquale
scene Antonio Fiorentino
costumi ripresi da Stefania Cempini e Fabrizio Buttiglieri da un’idea di Gemma Spina
con Edoardo Siravo, Mimmo Mignemi, Federica De Benedittis
e con, in o.a. Gabriella Casali, Pietro Casano, Luciano Fioretto, Federica Gurrieri, Paolo La Bruna, Giorgia Migliore, Valerio Santi, Vincenzo Volo
produzione MARCHE TEATRO, Teatro Al Massimo di Palermo, Teatro di Roma
note di regia
Camilleri drammaturgo di se stesso
Il primo rapporto con il teatro data, nella mia vita, all’incirca dal 1949. Da questo momento in poi, si può dire, non ci siamo mai lasciati. Il movente fu un sentimento tipico di certa gioventù inquieta, tra la noia e la curiosità.
Del teatro già da subito mi attraeva lo sperimentalismo linguistico, più che quello teatrale. Per primo, posso dire, ho sperimentato nei teatri cosiddetti minori autori come Beckett e Adamov. Le altre mie regie teatrali, circa un centinaio, hanno spaziato su repertori diversi per prospettiva e storia.
Non ho scritto di teatro, come sarebbe sembrato normale, ma nel ‘67, volendo aprire un capitolo nuovo della mia creatività, scrissi II corso delle cose, che venne puntualmente rifiutato da dieci editori.
Oggi posso assistere a come il pubblico reagisce di fronte ad un drammaturgo di se stesso che ha già conosciuto come scrittore.
Prima di accettare l’ipotesi di una riduzione per il teatro di questa mia opera letteraria ho resistito un bel po’. Non capivo come fosse possibile (e ragionavo, è ovvio, da autore) trovare un contenitore spaziale, una griglia che supportasse, senza tradirlo, il racconto. Il colloquio avuto con Giuseppe Dipasquale ci ha fatto trovare la soluzione: una struttura drammaturgica che salvaguardasse la scomposizione temporale del romanzo, ma condotta in modo da localizzare scenicamente il tutto in un luogo che fosse ad un tempo un teatro (quello, per esempio, dove poteva essere avvenuto l’incendio) e il luogo dell’azione del racconto.
Sono stato per lungo tempo un regista per non capire quante insidie si nascondono nella trasposizione scenica di un’opera letteraria. Ci sembra, questa volta, di avere fatto il possibile affinché l’opera, lo spirito, l’ironia del romanzo siano state conservate. Per il resto non posso che essere d’accordo con quell’altro mio illustre conterraneo, quando diceva che l’opera dello scrittore finisce quando comincia quella del regista.
Pirandello amava dire che il lavoro dell’autore terminava quando egli riusciva a mettere la parola “fine” alla scrittura teatrale. Bene, questo copione ha la parola fine, messa nell’ultima pagina. Tuttavia mi sento di chiosare il buon Luigi: è proprio nella messa in scena che inizia un nuovo viaggio del testo, sempre diverso e sempre nuovo, sempre imprevedibile, sempre disperatamente esaltante. Per questo il confine del teatro è come l’orizzonte dei viaggiatori nei mari d’Oceano: sempre presente, mai raggiungibile.
Andrea Camilleri
NOTE
“Il birraio di Preston” tratto dal romanzo di Andrea Camilleri è uno spettacolo messo in scena con la regia di Giuseppe Dipasquale, che firma insieme all’autore la riduzione teatrale. Lo spettacolo è andato in scena per la prima volta nella stagione 1998/1999 ed è stato ripreso nelle stagioni 2008/2009 e 2009/2010 con una tournée nazionale che ha toccato le maggiori città italiane, tra cui Milano, Roma, Torino, Genova, Padova, Bologna, Bolzano, Verona, Palermo.
TRAMA
Ci troviamo in un piccolo paese siciliano, che nella topografia camilleriana è il solito Vigàta, durante la seconda metà dell’Ottocento. L’occasione è data dal fatto che è necessario inaugurare il nuovo teatro civico “Re d’Italia”.
Il prefetto di Montelusa, paese distante qualche chilometro, ma odiato dagli abitanti di Vigàta perché più importante e perché sede della Prefettura, si intestardisce di inaugurare la stagione lirica del suddetto teatro con un’opera di Ricci. Nessuno vuole la rappresentazione di quel lavoro, tra l’altro realmente scadente.
Il Prefetto obbliga addirittura a dimettersi ben due consigli di amministrazione del teatro pur di far passare quella che lui considera una doverosa educazione dei vigatesi all’Arte, per seguirli paternamente nei primi passi verso il Sublime.
Si arriva quasi a una guerra civile tra le due fazioni: da un lato i vigatesi che, con quel naturale e tutto siciliano senso di insofferenza verso tutto quello che sappia di “forestiero” (e il Prefetto Bortuzzi lo è!), decidono di boicottare l’ordine prefettizio; e dall’altra il prefetto Bortuzzi con Don Memè Ferraguto, al secolo Emanuele, cinquantino, sicco di giusto peso, noto uomo d’onore del luogo, sempre alleato al potere per atavica e pura convenienza. Da ciò si diparte una storia divertentissima e al tempo stesso tragica, che culmina nell’incendio del teatro.
Una narrazione interessante per il suo intreccio e intricata nello sviluppo specie quando compaiono sulla scena i dinamitardi che hanno il compito di dare al boicottaggio di quell’inaugurazione la fisionomia di un messaggio a livello nazionale: dovranno infatti far esplodere il teatro per convincere il governo che anche la Sicilia è allineata, contro lo Stato, a favore dei Carbonari.
La turbolenta vicenda si incastra con quella del Delegato Puglisi e della sua amante, la cui sorella ha trovato atroce morte proprio in seguito all’incendio del teatro, della cantante Maddalena Paolazzi vittima una delle più clamorose “stecche” nella storia del bel canto, del Dottor Giammacurta, dell’avvocato Fiannaca, dell’ingegnere Hoffer e di tanti altri.
La vicenda narrata è una vicenda esemplare per raccontare oggi la Sicilia. L’eterna vacuità dell’azione siciliana, che spesso si traduce in un esasperato dispendio di energie per la futilità di un movente, è la metafora più evidente del testo. In un esempio sublime e divertito di narrazione dei caratteri, la Sicilia, il suo mondo, i suoi personaggi vengono ammantati, attraverso la lingua camilleriana, da una luce solare, vivida di colori e ricca di sfumature.
Questa Sicilia che non dimentica i morti, non dimentica i mali letali che cercano di consumarla inesorabilmente dal di dentro, che non dimentica il tradimento verso valori appartenuti a se stessa quando era culla di una civiltà, questa Sicilia oggi può senza timore ricominciare a parlare di se stessa con la necessaria ironia e distacco, affinché l’autocompiacimento delle virtù come dei vizi e dei dolori, non costituisca lo stagno dal quale diviene difficile uscire.